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V DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 58,7-10; Sal.111; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16)

domenica 6 febbraio 2005

Domenica scorsa abbiamo accolto la proposta di vita, fattaci da Gesù con le beatitudini (Mt.5,1.12): custodiamola nel cuore. Questa proposta dona l’occasione a Matteo di porre la comunità che legge il Vangelo, di porre ciascuno di noi, davanti alle esigenze forti che scaturiscono dall’accoglienza di essa: la responsabilità che ha ogni cristiano di perdersi nell’umanità alla maniera del sale negli alimenti, della luce emessa dalla lampada in un ambiente.

Guardiamo con attenzione al testo sacro, fondamentale per tutti noi.

La fede è la luce di Dio che viene comunicata – per purissimo dono – ai discepoli del Vangelo, non è verità da capire intellettualmente, ma partecipazione alla realtà stessa di Dio, perché come dice Giovanni nella sua prima lettera: “Dio è luce” (1Gv.1,5). Nel libro dell’Esodo leggiamo che Mosè, quando scese dal monte, dove aveva avuto un particolarissimo incontro col Signore, portava sul volto il riverbero della sua luce (Es.34,35). Chi aveva visto Dio nella comunione dell’amore non poteva essere guardato direttamente e perciò Mosè si coprì il volto con n velo. La comunità che scende dal monte delle beatitudini, dove ha ascoltato la proposta divina di vita, dovrà esserne segno. Le immagini della città sul monte e della lampada sul candelabro sono immagini che dicono visibilità. La visibilità appartiene alla Chiesa per volere di Gesù: egli le domanda di essere punto di riferimento per l’umanità, di essere lo specchio delle beatitudini, nella povertà, nell’afflizione, nella misericordia, nella mitezza, nella tensione verso la pace… nel servizio. Il discepolo delle beatitudini non può, non deve nascondersi.

Gesù dice: “Voi siete il sale della terra… voi la luce del mondo”. Vuole farci capire così che la fede non può essere vissuta da soli, non può essere un rifugiarsi nella quiete della luce ricevuta, nell’intimismo della liturgia. Dobbiamo coinvolgerci con l’umanità nella comunione fraterna, condividere la vita della fede, perché la destinazione dei doni di Dio è sempre universale, non è proprietà personale da privatizzare. Come il sale e la luce sono un bene per tutti e richiedono comportamenti concreti.

Il sale non è una perla che si conserva, non è moneta che si deposita in banca. È un ingrediente per preparare gli alimenti: se non si lasciasse “annientare”, per scomparire nel cibo amalgamandosi con esso, perderebbe la sua funzione. L’immagine richiama l’altra del lievito, che Matteo userà nel discorso delle parabole, al capitolo 13, per ricordare che il discepolo del Vangelo evita ogni separatismo, non si contenta di essere per gli altri, ma vuole essere con gli altri, sulla linea di Cristo, amico dei pubblicani e dei peccatori (Mt.11.19), perché ciascuno – nella singolarità della propria personalità – possa sentirsi a proprio agio con lui.

La luce non è quella della verità teorica, ma quella delle buone opere. Con esse Matteo non indica le opere di pietà e di culto, cui guarda con sospetto: alla fine del Discorso della Montagna, Gesù dirà: “Non chiunque mi dice: “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli” (Mt.7,21). La volontà del Padre è quella di cui Gesù si è fatto esempio, andando incontro a tutte le sofferenze dell’umanità: “condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici …” (Mt.4,24). Sarà questo il criterio di riconoscimento dei discepoli davanti al Padre: “Venite benedetti del Padre mio, … perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere …” (Mt.25,34-35).

Matteo sembra voler ammonire la comunità a non cadere nel rischio di apparire come una caricatura di Cristo e delle beatitudini, una caricatura della comunità che Cristo ha fondato e a cui ci chiama, chiudendosi nella dimensione della celebrazione e della liturgia, nella proclamazione solo teorica della verità. Essa deve invece interrogarsi sul modo di spendersi nella carità, deve sentirsi tormentata di fronte a tanti che nella storia sono flagellati. Nel passo di Isaia che abbiamo letto il Signore non chiede atti di culto, ma ci dice: “Spezza il tuo pane con l’affamato, introduci in casa i miseri…” (Is.58,7).

Se il male nel mondo non recede, non recede il male della nostra gente, il dramma della nostra città, è perché la luce che deve vincerlo è fioca. Troppo spesso si sperimenta, anche nel nostro tempo, come il desiderio di Cristo resti incompiuto per il rifiuto, l’indifferenza verso la Chiesa. La visibilità del suo volto è nelle rughe del volto di Madre Teresa di Calcutta, non nell’eleganza delle strutture istituzionali della comunità ufficiale.

Il Signore ci dice: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone…” Il testo greco dice le vostre opere “belle”; anche nel nostro parlare quotidiana, bello e buono sono tra loro collegati. La luce del Vangelo ha una dimensione pubblica che non si concilia con l’incompetenza e con la freddezza. Sembra perciò che il Vangelo ci proponga quattro dimensioni. La dimensione pubblica, nella linea del servizio (Is.58,7-10). La dimensione universale, che non lascia fuori nessuno dei flagellati della storia. La dimensione di concretezza,in una condivisione visibile, più che efficiente. La dimensione di trasparenza che riconduce a Dio, non alla bravura del protagonista.

Nell’avvicinarsi della Quaresima, possiamo concludere che se la luce agisce ed è percepita solo nelle opere dell’amore, allora il pensare non può essere continuo ed estenuante ripiegamento su di sé, continuo ed angosciante volersi possedere per perfezionismo individualistico, ma tensione a dirsi non con le parole, ma con i gesti concreti della relazione viva, gesti anche piccoli ed apparentemente insignificanti, ma che testimonino la realtà di Dio che si è fatto carne. Gesù scioglie la durezza dei concetti e dei problemi nella tenerezza della vita quotidiana ed afferma che un bicchiere d’acqua offerto nel pensiero di Dio ha in sé una forza di espressione, di sintesi e di proposta che la moltitudine delle parole non può avere.

Il nostro tempo vede il tramonto della saggezza, il logoramento delle parole, il silenzio della poesia e dell’arte, che sembra non sappiano più esprimersi, mentre diventiamo sempre più schiavi delle molte parole della pubblicità, delle pretese delle mode, che costringono ad omologarsi negli atteggiamenti collettivi. Che questa Quaresima sia un invito a pensare amore, a dire con i gesti che la luce di Dio è salvezza per l’umanità.

Chiediamo al Signore che essa sia per noi un tempo per imparare a pensare come amore.

domenica 6 febbraio 2011

Leggiamo questo brano di pochi versetti dal capitolo 5 di Matteo nel clima spirituale di riflessione, preghiera e festa per la realtà della famiglia. È una circostanza che anticipa quanto il Signore ci dirà sul matrimonio in questo discorso inaugurale della sua predicazione e poi al capitolo 19. Mentre nel primo sottolinea l’aspetto etico, nel secondo annuncia l’aspetto dottrinale. Parla del rapporto uomo-donna riconducendolo all’intenzione di Dio creatore ed usa l’espressione “in principio”; non è un principio in senso di tempo, ma dell’intenzione di Dio che ha pensato e voluto l’uomo e la donna “a sua immagine e somiglianza”, perciò chiamandoli alla relazione reciproca e, insieme, alla relazione con i figli.

È una chiamata che si esprime nella storia e nelle diverse culture in una pluralità di forme. La donna e l’uomo non sono abbandonati all’anarchia affettiva e sessuale, ma invitati ad armonizzare liberamente affettività e sessualità. Il Vangelo si inserisce, come sale e luce, nel contesto della storia e delle culture umane con un salto di qualità ed afferma la possibilità di attuare l’intenzione del Creatore, fondandola sulla relazione con Lui, in cui ogni altra si radica. Relazione con Dio perché è “il principio”. Dal rapporto con Lui nascono la definitività e l’esclusività della vita di coppia. Quel rapporto svela a ciascuno la possibilità e la verità della fedeltà all’amore e la consegna all’uomo perché si realizzi in essa, vivendola: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv.13,34), dirà l’ultima sera.

“Una corda a tre capi non si rompe tanto presto” aveva detto il saggio Qoèlet (Qo,4,12), non sapendo che la sua saggezza fosse profezia, ma riferendo l’esperienza e il desiderio di tanti. E Gesù propone questa verità come il senso della vita, raggiungibile se la relazione uomo-donna si intreccia con il “terzo capo” del rapporto di ciascuno con Dio. Quel “capo”, infatti, è Lui, il Creatore che chiama alla somiglianza di sé. Il “principio”, allora, non va inteso nel modo in cui il passato considerava la vita di coppia e la genitorialità, come un rimpianto, una nostalgia di altri tempi, ma il “principio” è invito a pensare la relazione interpersonale come segno forte dell’amore fedele che è Dio stesso, da sempre e per sempre. Gesù dice che questa radice fonda la libertà di scelte forti nei passaggi aspri della vita insieme. E rivendica il primo posto di Dio: nessun amore potrà essere più grande di quello per Lui, anche i rapporti coniugali e familiari sono “penultimi”, rispetto al bene ultimo che è Dio stesso, come scrive Bonhoeffer.

Così ogni chiamata personale ad essere discepolo di Gesù si incrocia con il comandamento dell’amore reciproco “fino alla fine” (Gv.13,1), che è misura e norma di ogni rapporto, nelle famiglie come nei conventi e nelle società. Quando, andando dietro a Gesù, si vive così, ogni situazione umana in cui la vita vuol essere un “sì” a Dio, è un sacramento di Lui, un ambiente in cui Cristo risorto abita e si manifesta.

Oggi domandiamo nella preghiera per gli sposi la “beatitudine” della loro vocazione all’amore reciproco nel rapporto di coppia e di famiglia. Una beatitudine “dinamica”, consapevole che i rapporti sono soggetti al rischio di diventare stantii, senza sale che dica sapore e senza luce che dia i colori dell’andare avanti, e vanno perciò sempre ripensati in termini di libertà e di reciprocità, così come vanno ripensate le scelte di donare la vita ai figli nell’attenzione alla sacralità della vita, di ogni persona, di ogni famiglia. Niente, per i credenti, deve andare in un certo modo perché così vuole la tradizione. Non si può ingessare la fedeltà soggiacendo, per amore del puro ordine tutelato, all’imperativo: “Si è sempre fatto così!”. Non si è cooperatori di Dio creatore all’insegna della nostalgia, non si può essere fedeli nel matrimonio che nell’accoglienza della novità dello Spirito.

L’essere sposi che guardano al “principio” significa custodire con gratitudine i valori acquisiti finora e trasmessi da chi ci ha preceduto, e nello stesso tempo significa lasciarsi proiettare verso quello che il Vangelo annunzia e che ancora non siamo in grado di vivere. È il dinamismo dello Spirito, l’incontro tra la sapienza di Dio e l’intelligenza dell’uomo. Quel dinamismo che rende la famiglia una “chiesa domestica” luogo in cui la verità della presenza di Dio si fa tangibile e sperimentabile.

Così il matrimonio è sempre nuovo, un dono tutto da scoprire e il mio augurio è che possiate scoprirlo costantemente.

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