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XXIV DOMENICA T.O. – Anno A
(Sir 27,33-28,9; Sal.102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35)

domenica 11 settembre 2005

È una questione personale di Pietro: “il mio fratello, se pecca contro di me”. Matteo la riferisce per coinvolgere ogni lettore del Vangelo, ognuno di noi. Ma essa assume maggiore importanza perché si tratta di un problema proprio di Pietro e Matteo sottolinea più volte il compito di Pietro, compito di presidenza, di modello di vita per la comunità, di “fondamento”, come si legge nel capitolo 16.
Domenica scorsa, leggendo la prima parte dell’insegnamento rivolto dal Signore alla comunità dei discepoli nel capitolo 18, abbiamo ascoltato il suo invito ad andare verso il fratello che sbaglia per “guadagnarlo”. Perché i fratelli nella fede sono quelli guadagnati dall’amore reciproco. Oggi, invece, la domanda serve per introdurre l’insegnamento sul perdono, come qualcosa che qualifica la vita cristiana. “70 volte 7” è un modo di dire ebraico, proverbiale, che significa un numero infinito di volte. Il perché di questa esigenza posta ai discepoli da Gesù non è tanto di ordine morale, non riguarda il comportamento, il merito, ma è piuttosto di ordine teologico, profetico, e ci dice che all’inizio della vicenda di ciascuno c’è il perdono divino senza condizioni. Tutti siamo dei perdonati.
La parabola, che evidenzia la sproporzione tra i due debiti, ci vuole innanzitutto spingere ad essere coscienti dell’immensità del dono di Dio, il dono che chiamiamo “grazia”, dono di quel Dio che la Scrittura ama definire “ricco di misericordia”, dalla sua prima manifestazione a Mosè fino agli scritti del Nuovo Testamento. La misericordia è il primo attributo di Dio. La parabola invita a ricordare questa “radice” per aiutarci a superare la difficoltà di riconoscerci bisognosi di misericordia. Perché non riconoscere i propri limiti, non accettare, non riuscire a riconoscere, con sincerità e pace, i propri errori è la più grave mancanza in cui l’uomo possa cadere. La coscienza di questa misericordia ci fa capire che la comunità umana si costruisce su chi vive pazientemente l’accettazione reciproca, con lo stile di un perdono, ricevuto ogni giorno senza chiudersi nell’orgoglio ferito, donato ogni giorno senza durezze verso chi sbaglia.
La seconda scena della parabola contrappone il “non volle” del servo verso il suo compagno al “gli condonò il debito” del re e fa emergere tutta la contraddizione di questo comportamento. Il rimprovero è un invito a credere nella possibilità di “rimettere i debiti”, non solo come un dovere morale meritorio, ma come la possibilità di testimoniare il grandissimo atto di fiducia di Dio nei confronti della creatura che può, anche se peccatrice, testimoniarne la misericordia. Dio domanda ai propri figli, limitati e peccatori di dire nella relazione umana che egli è misericordia. Qui è la vocazione del cristiano. È importante, perciò, sentirci, in sincerità e gioia, “perdonati”. Aiuta tanto le persone sentirsi dire nel confessionale: “Anche io sono un perdonato … sei mio fratello … sei mia sorella”. Bisogna però testimoniare la realtà di questo perdono, con altrettanta sincerità e gioia, non solo a parole, ma con gesti concreti e, quando occorre, pubblici, di remissione, anche senza poter essere certi del pentimento dell’altro. Perché Dio è sempre misericordia.
Come credenti non possiamo mai pensare, alla luce della parola del Signore, che il male si può sconfiggere con il male, come avviene con la tragedia, che si rinnova dolorosamente, della guerra. Il male non produce mai il bene. Perciò chi perdona non si pone sullo stesso piano di chi ha fatto il male, ma cerca di identificare in lui un candidato al recupero di quella dignità, che l’errore ha offuscato in lui, ma che può avere una piena guarigione etica e sociale.
Quanto è importante per chi vuole vivere il perdono non porre mai gesti di violenza, atteggiamenti di provocazione che suscitino reazioni di violenza. Pensiamo al traffico, alla mentalità dell’omologazione alla violenza altrui. Pensiamo alla scuola, che riprende in questi giorni, al rapporto tra insegnanti ed alunni, agli uffici, ai rapporti sul luogo di lavoro… Pensiamo ai problemi della criminalità giovanile nella nostra esistenza quotidiana.
Ma pensiamo anche al livello internazionale, là dove la remissione del debito può diventare un segno di fiducia, un incoraggiamento nei popoli che sentono la spinta alla rivendicazione dei propri diritti e vedono tanti farlo nello stile di Caino. La remissione del debito ha anche una portata economica.
Matteo invita “perentoriamente”, con grinta, al perdono fraterno. Gesù lo aveva inserito nel “Padre Nostro”: non possiamo avere comunione con il Padre di tutti, se non abbiamo relazioni di amore con i fratelli. La nostra fede ha insieme una dimensione verticale ed una orizzontale. Non vivere il perdono significa non essere riconosciuti dal Padre come figli. Occorre entrare in questa esigenza “di cuore”, interiormente, sinceramente, illimitatamente.
In questi giorni abbiamo pensato a Maria, madre di misericordia: nessuno è scacciato da lei, anche se ingiusto. Chiediamole di supplire alle nostre incapacità!

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