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XIX DOMENICA T.O. – Anno A
(1Re 19,9.11-13; Sal.84; Rm 9,1-5; Mt 14,22-33)

domenica 7 agosto 2011

Guardiamo con attenzione le parole e i gesti del Signore nella pagina del vangelo di Matteo. Sono parole e gesti della “scuola del discepolato” che l’evangelista consegna alla sua opera, perché il lettore, in ogni epoca, ne possa far parte con sicurezza e fiducia.

“Costrinse i discepoli”. Dopo la moltiplicazione dei pani, Gesù non vuole che i suoi più vicini, testimoni e partecipi del prodigio, si facciano catturare dall’entusiasmo della folla. Gesù ha in cuore quello che avrebbe svelato nelle ore seguenti, la radice del suo pensiero e della sua azione mostrata nel rapporto profondo con il Padre. Guardiamo con attenzione il suo distacco e il suo mondo interiore: “congedata la folla – dice Matteo – salì, in disparte, a pregare … venuta la sera egli se ne stava lassù da solo … fino al finire della notte”. Quella radice intima, già testimoniata e insegnata nel Padre Nostro, sarebbe dovuta diventare la priorità nella vita dei suoi, non il successo: perciò avrebbe dovuto costituire il loro primo pensiero, la loro ricerca fedele e paziente intessuta di silenzio e vuota di altri interessi, con l’esemplarità che già l’Antico Testamento testimoniava. Perciò nella liturgia di questa domenica ci è data l’esperienza di Elia , che va a cercare il Signore sul monte della rivelazione a Mosè e lo trova solo dopo aver capito che la presenza di Dio non va cercata nel terremoto, nel vento impetuoso, ma nell’alito leggero dello Spirito. Dobbiamo imparare a cercare nel rapporto con il Signore la verità di noi stessi e di quello che viviamo. Matteo ce lo comunica con quello che racconta subito dopo.

“La barca era agitata dalle onde … a causa … del vento contrario” e “quelli che erano sulla barca” provarono un duplice spavento: quello del naufragio certo e quello di ritenere il Signore lontano da loro, troppo. Al punto di non riconoscerlo mentre gli si avvicinava e ritenerlo un fantasma, un’evanescenza. Si può essere discepoli sinceramente, stare nella barca della Chiesa e non avere la maturità di fede che fa certi della parola di Gesù anche quando si è invasi dallo spavento, sopraffatti dal peso delle cose, dal vento contrario delle opinioni correnti, dal modo comune di concepire la vita, dal desiderio del bene da ottenere senza contrarietà e sacrifici.

Il cammino di fede di Pietro è ricco di insegnamento È proprio mentre obbedisce all’invito del Signore, “vieni”, che Pietro è preso dalla paura, come uno che non ce la fa a credere alla sua parola: ”coraggio, sono io, non abbiate paura”. Ha la sensazione che le forze contrarie siano più potenti di quella che lo stava realmente sostenendo mentre camminava verso Gesù. Dovrà sempre ricordare Pietro, e noi con lui, che essere discepoli non significa essere indenni dalla condizione di precarietà. Nessuna esenzione e perciò nessuna sicurezza di aver raggiunto un equilibrio tale da garantire un cammino sicuro. Tutti, come Pietro, dobbiamo con umiltà saper gridare interiormente: “Signore salvami!”, un grido che ha le caratteristiche di un gemito, come dicono san Paolo e sant’Agostino nella lettera ai Romani e in quella a Proba. Quel gemito è il “respiro leggero”, avvertito da Elia, dello Spirito che spinge a credere nella verità della mano tesa del Signore, che afferra a sé e dice con tenerezza: “Perché hai dubitato?”.

È l’esperienza della fede come rapporto personale di Cristo con ciascuno dei “suoi”.

Questa pagina di Matteo invita a non rifiutare i segni della presenza di Dio nella vita, anche quando ci appare lontana, senza consistenza pratica, come vien fatto di pensare del vento leggero, di una brezza a cui non si da peso. Elia, ebreo abituato a riconoscere la manifestazione di Dio in potenza e prodigi, come nella teofania del Sinai, appare bloccato nel credere. Se si è bloccati così, si rischia di restare prigionieri della paura per la mancanza di collegamento tra quello che pensiamo come bene e quello che ci viene domandato di vivere. Si diventa, o lo si può, “paurosi di Dio”.

Al discepolo viene chiesto di fidarsi di Gesù, di credere alla potenza della sua mano tesa, che lasci campo all’esperienza personale della sua presenza e della premura di Lui nello svolgersi delle cose. Come accade al bambino che “si lascia” camminando verso la mamma che gli dice: “vieni!”, più certo dell’amore di lei che della propria forza.

Dalla meditazione di questo brano nasce il desiderio di cercare con convinzione i momenti di preghiera per la verità del Signore nella vita di ciascuno.

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