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SANTISSIMA TRINITÀ – Anno A
(Es 34,4-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18)

domenica 22 maggio 2005

Quando Paolo ha rivolto ai fedeli di Corinto il saluto, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura, erano passati circa venti anni dalla morte e resurrezione del Signore, dalla sua ascensione. Venti anni sono molti per la nostra vita di singoli, pochi per la storia; ma le parole dell’Apostolo ci dicono di una fede chiara e condivisa in Dio Trinità, che opera incessantemente nel dare la vita – del Padre -, nel redimerla – del Figlio -, nello spirare amore – dello Spirito. La liturgia, oggi, ci invita a sostare, contemplando la realtà di Dio, piuttosto che a fidarci della ricerca umana, incapace di penetrare il mistero. Papa Benedetto XVI ha scelto nel suo stemma proprio il segno della conchiglia, che ricorda come, ad Agostino, che cercava di penetrare con la mente il mistero della Trinità, apparve un bambino, che voleva svuotare il mare con una conchiglia. Tale è ogni tentativo umano di penetrare, con la sola mente, il mistero della pienezza divina. Dobbiamo invece fidarci di Lui che interiormente ci sollecita a cercare oltre noi stessi, e lo fa invitando ad accogliere il Figlio che dice: “Io sono la verità”. Nel Vangelo di Giovanni Gesù di rivela come Colui che discende dal cielo, come via della verità verso la persona, della persona verso la verità. Egli non è venuto per “giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.

Il dono della rivelazione di Dio può essere accolto o rifiutato, ma resta che la verità trinitaria riguarda l’essere stesso dell’uomo. È lì che l’uomo trova la spiegazione più vera di se stesso: o vive nella relazione o non vive. Questa è la verità. Anche se i fatti di cronaca ci mostrano tanta oscurità, essi ci confermano che al di fuori della relazione non c’è vita. Gesù che vive il legame con il Padre “fino alla fine” ci dice che la relazione è il senso della sua vita. Agostino, guardando Gesù nel rapporto con il Padre, e contemplando il mistero, dice che Dio è relazione nella sua essenza più intima, l’essenza trinitaria. Giovanni, nella sua prima lettera, dirà che Dio è “agape”, amore vissuto, comunione.

Quando diciamo che la fede cristiana è fede trinitaria, perché nasce dalla rivelazione di Dio Trinità, siamo chiamati a guardare l’uomo come essere che realizza la sua essenza più propria crescendo nella capacità di relazione, nell’imparare quotidiano ad uscire da sé per donarsi, nell’essere per l’altro. Capiamo questa verità contemplando Dio, ma anche guardando il creato. Tanti che non che non si riconoscono nella fede possono condividere questo pensiero, sostenuto dall’osservazione: ogni realtà creata porta in sé l’orma trinitaria del Creatore, per cui ogni cosa appare essere in dono all’altra cosa, e questo reciprocamente, pena la rottura dell’equilibrio del tutto. Il ghiacciaio è dono al ruscello e il ruscello al fiumiciattolo; il fiumiciattolo è dono al fiume più grande, il fiume al mare, il mare alla pioggia, che alimenta i ghiacciai… Per dirlo con linguaggio mistico, ogni cosa nei confronti dell’altra è Padre che genera, Figlio che accoglie, Spirito che lega. In un legame che non viene mai meno.

Da questo pensiero trinitario viene la cultura cristiana della fraternità. L’agape, che trasforma il cuore del discepolo e lo apre al fratello, tende alla reciprocità come suo massimo. Quando il fratello amato risponde all’amore donando a sua volta, è l’agape, la comunione, il “come in cielo così in terra”, che Gesù ci ha insegnato a chiedere al Padre.

Questa logica “trinitaria” ha delle conseguenze precise, concrete, a livello etico, nella situazione in cui viviamo oggi. Anche un pensatore laico come Kant, afferma con forza che la persona umana deve essere trattata sempre come fine e mai come mezzo. Oggi la persona rischia di diventare sempre più materia di manipolazione, merce di consumo. È urgente puntare al riconoscimento della dignità della persona come spazio essenziale per la sua realizzazione. È un fatto culturale, che può permettere alla crisi attuale di sfociare nel recupero del mistero della persona alla luce del Dio Trinità. E si può cogliere, già presente, la controtendenza che spinge a vedere l’altro, e ad essere visti dall’altro, non nell’efficienza, ma dal punto di vista di quello che si è, persona una e intera in ogni situazione. È necessario saper apprezzare questa tendenza , interpretare positivamente questa spinta – che si esprime nella difesa dei diritti umani, nell’istanza di pace, nell’attenzione all’ecologia – orientandola alla comunicazione aperta, creativa, in cui ci si possa scambiare reciprocamente quello che si è e quello che si ha. È cultura del Vangelo per il mondo. Il Concilio Vaticano II ha detto, quaranta anni fa: “l’uomo, che in terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi se non attraverso il dono sincero di sé” (G.S.24)

La logica trinitaria non vale solo per i rapporti interpersonali, vale anche per i rapporti tra le culture, i popoli, le tradizioni religiose. L’impegno per il dialogo è difficile ed esigente ed incontra diffidenze, paure, difese, rifiuti. Ma la fedeltà alla propria identità e alla relazione possono essere vissute contemporaneamente proprio se si è fedeli al mistero del Dio Uno e Trino: esso appartiene al compito culturale dei cristiani nel mondo. Quasi ogni giorno Benedetto XVI ci ricorda l’importanza del dialogo. Solo questa logica è in grado di esprimere l’azione dello Spirito di Dio che a tutti vuole rendere possibile l’accesso al divino, per sempre.

Ringraziamo il Signore di averci permesso di conoscerlo, di nominarlo, e chiediamogli di poter condividere i sentimenti del suo cuore.

domenica 18 maggio 2008

Il brano del vangelo di Giovanni è tratto dal capitolo 3, dove l’evangelista racconta il colloquio di Gesù con Nicodemo, fariseo “uno dei capi dei giudei”, che cerca il Signore “di notte”. Così Giovanni attualizza nella realtà concreta quello che aveva annunciato solennemente nel prologo: Gesù è la luce e la vita che viene a splendere nelle tenebre.

Nicodemo, uomo credente, che vive intimamente la ricerca di Dio, intuisce qualcosa della luce che è in Gesù, lo chiama “rabbi”, lo riconosce come uno che insegna perchè mandato da Dio, ma fa difficoltà ad andare oltre le definizioni che ha dentro di sé, le avverte come ostacolo quando gli viene chiesto di assoggettarsi alla necessità di rinascere. Gesù rileva il limite in cui si blocca Nicodemo, dice con una nota di amarezza: “ciò che è nato dalla carne è carne, ciò che è dallo Spirito è Spirito” (Gv.3,6). È un ammonimento ad evitare l’assolutizzazione della sola razionalità, un invito a lavorare per la conquista personale della povertà di spirito.

Gesù dice ai presenti e a tutti noi che nascere dallo Spirito significa entrare in un modo diverso di vedere e di comprendere , mentre il vivere “secondo la carne” rende soggetti a giudicare in base a quello che è percepito esclusivamente con i sensi e le emozioni. Questa premessa consente a Gesù di parlare di Dio, del suo mistero di amore e di poterlo fare in verità, perchè si definisce “figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv.3,12). Le sue parole hanno una forte caratterizzazione di universalità: Dio lo ha mandato nel mondo non per giudicarlo negativamente, ma per salvarlo. Nella sua venuta c’è costantemente un giudizio, ma esso avviene nella libera consapevolezza dell’accoglienza o del rifiuto di Lui, che parte da chi lo incontra. Accoglienza e rifiuto che si manifestano adesso, nel presente, non tanto per l’affermazione o la negazione di verità assiomatiche, ma per il coinvolgimento o meno di tutto l’essere nelle opere che permettono lo splendore della luce.

Definendo se stesso come “figlio dell’uomo” e “unigenito figlio di Dio” (Gv.3,14-15.18), Gesù si identifica in un duplice rapporto, legato al Padre e all’umanità: il suo essere è di Dio e nostro. Egli si definisce perciò nella relazione con l’alterità: quella del Padre e quella degli uomini che il Padre gli da.

Definendosi così, in questa relazionalità, traspare l’essere di Dio. Da un lato questo essere “il Figlio”, uno che non avverte l’alterità come un’estraneità, qualcosa che invade e da cui difendersi – secondo il pensiero di Nietzsche -, ma come un Amore costantemente presente, per cui ne accoglie ogni momento la parola, ne ricerca il volere per farlo proprio. Dall’altro lato, in reciprocità piena e simultanea, il Padre è definito come premura affettuosa, come disegno di bene, come intimità tenera.

Come ha scritto Hans Urs von Balthasar, è lo svelamento de “la rinuncia di Dio ad essere Dio solo per se stesso”. Svelamento di Dio quale rapporto in se stesso, appunto Dio Trinità, che si può conoscere per esperienza facendo del credere non una enunciazione astratta di principi, ma un vivere le opere che manifestano la sua realtà vera, cioè il rapporto.

Credere in Dio Trinità è perciò lasciarsi contagiare dal cammino di ritorno di Gesù che va al Padre come punto di arrivo, non un luogo, ma una persona, e procede in questo cammino facendosi rapporto con l’umanità. Egli dirà: “Padre, io vengo a te.” (Gv.17,11.13).

Non è Dio ad essere “antropomorfico”, ad immagine dell’uomo, ma è l’uomo ad essere “teomorfico”, ad immagine di Dio (von Rad)

Allora bisogna impegnarsi nei rapporti.

La grande risposta di Gesù all’uomo in ricerca è Dio Trinità di amore.

L’amore non come sentimento, ma come struttura intima di ogni persona e di tutto il reale. Alcune parole di Chiara Lubich lo dicono bene:

“Chi mi sta vicino è stato creato in dono per me
ed io sono stato creato in dono a chi mi sta vicino.
Sulla terra tutto è in rapporto di amore con tutto
e ogni cosa con ogni cosa.
Occorre però essere l’Amore
per trovare il filo d’oro tra gli esseri.

(Dottrina spirituale p.130)

È un impegno che richiede un uscire da se stessi, coinvolgendo il corpo, la psiche, lo spirito, per entrare con la nostra individualità nella persona di Cristo. È Lui, poi, che mi restituisce a me stesso, come rinato, perchè sia dono per i fratelli, in una relazione nuova.

Consentire al Dio Trinità, in giorni di paura e di tentazione di fuga, diventa un vero impegno di fede.

domenica 19 giugno 2011

“Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio …
Non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo,
ma perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui”

Questi versetti del Vangelo di Giovanni, che precedono immediatamente il passo che abbiamo letto oggi, sono come una sintesi del rivelarsi di Gesù, Figlio di Dio, ed indicano lo scopo stesso della vita della Chiesa.

Nel dialogo con Nicodemo, Gesù indica l’immensità del dono di Dio nella persona del Figlio per la vita del mondo. Perciò il Figlio stesso dice di non essere venuto per giudicare ma per salvare. Le parole sono rivolte a Nicodemo, membro del popolo ebraico, ma l’annuncio ha carattere universale “perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Sono parole che ricordano quelle dette, nel “prologo” del quarto vangelo, sul dono del Verbo eterno e sul mistero dell’accoglienza umana e inducono a riflettere su questo mistero di dignità e di libertà dell’uomo nell’oggi della comunità cristiana e dell’umanità intera. Chi crede è nella luce, chi rifiuta è avvolto nelle tenebre. Perciò il sì a Dio nell’accoglienza della sua azione creatrice di Padre, nella sua rivelazione nel Figlio che lo manifesta per l’incarnazione, dello Spirito che costantemente sospinge, è già “vita eterna”, condizione stabile per il credente. Ne viene che la decisione di accogliere la rivelazione di Dio non può essere limitata ad un solo momento decisivo, in cui la verità e la luce convincono di sé, ma domanda di porsi davanti a Dio Trinità con atteggiamento docile e costante di fede che si “consegna” a Dio e si manifesta nelle “opere buone”, cioè vivendo a somiglianza del cuore di Dio. Gesù dice a Nicodemo e a noi “chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (v.21). È l’impegno continuativo nelle opere che fa diventare sempre meglio persone inondate in profondità dalla luce e perciò partecipi della inondazione di essa nell’umanità.

La difficoltà di Nicodemo – che ha simpatia per Gesù, ne avverte il fascino, che non respinge apertamente le sue parole – sta nell’incapacità di vedere al di là di quello che può essere misurato, controllato, capito con le regole delle sole scienze esatte. È difficoltà a comprendere, a riconoscere il dono come proveniente da una radice altra da quelle scienze e da sé: “dall’alto”, dice Gesù. È la difficoltà che tutti sperimentiamo davanti alla drammaticità e alla indecifrabilità degli avvenimenti, difficoltà che può spingere alla desistenza dell’attesa e della ricerca, nella mente e nel cuore.

Oggi la liturgia della Trinità ci propone il mistero di Dio come legame, come dinamismo di amore, di comunione nella reciprocità. Il Dio “in principio” crea l’uomo a somiglianza di sé, propone la relazione come senso alto della vita stessa, donata da Lui, Padre. Perciò senza relazione le donne e gli uomini stanno male. Mentre nell’amore dato e ricevuto si sta bene, ci si sente a casa, perché si vive quello che viene dall’alto, dal principio, vocazione alla vita piena. Ma bisogna consegnarsi, arrendersi alla logica della relazione, alle sue esigenze, come i primi cristiani che si ripetevano l’un l’altro: “noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore di Dio in noi” (1Gv.4,15) , che significa lasciarsi penetrare dalla luce chiarissima della Trinità amandosi reciprocamente.

“Dio ha tanto amato il mondo”, non solo l’uomo, ma il creato la terra, gli animali, le piante … Ha scritto Leonardo Boff dopo le inondazioni di gennaio nello stato di Rio de Jeneiro:

“Noi trattiamo con violenza la natura e la deprediamo…
E, per di più, la trasformiamo in una immensa discarica dei nostri rifiuti…
L’universo e la natura possiedono storia.
Essa ci viene narrata dalle stelle, dalla terra,
dall’affiorare e dall’elevarsi delle montagne, dagli animali, dalle foreste e dai fiumi.
Nostro compito è saper ascoltare i loro messaggi”

(su “Il dialogo” n.91, marzo 2004)

La contemplazione cristiana si è inebriata alla luce della Trinità amante del creato, che pure era e rimane altro da sé, dai vangeli apocrifi a Francesco, ad Alfonso dei Liguori, al nostro tempo in cui i mistici sono presenti.

“Avevo l’impressione di percepire, forse per una grazia speciale di Dio,
la presenza di Dio sotto le cose. Per cui, se i pini erano indorati dal sole,
se i ruscelli cadevano nelle loro cascatelle luccicanti,
se e margherite e gli altri fiori e il cielo erano in festa per l’estate,
più forte era la visione di un sole che stava sotto a tutto il creato.
Vedevo, in certo modo,credo, Dio che sostiene, che regge le cose.
E Dio faceva sì che esse non fossero come noi le vediamo; erano tutte legate fra loro
dall’amore, tutte – per così dire – l’una dell’altra innamorata.
Per cui se il ruscello finiva nel lago, era per amore.
Se un pino si ergeva accanto ad un altro, era per amore.
E la visione di Dio sotto le cose, che dava unità al creato, era più forte delle cose stesse;
l’unità del tutto era più forte della distinzione delle cose fra loro”

Così Chiara Lubich che aggiungeva a modo di sintesi:

“Sulla terra tutto è in rapporto di amore con tutto: ogni cosa con ogni cosa.
Bisogna esse l’Amore per trovare il filo d’oro fra gli esseri”

(in: “Nuova umanità” 186, pp.704-705)

Così comprendiamo che ognuno di noi è creato in dono all’altro.

Che la Trinità non è un’astrazione, ma la vita nella sua pienezza.

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