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II DOMENICA DI PASQUA – Anno A
(At 2,42-47; Sal.117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31)

domenica 3 aprile 2005

Ripercorriamo alcune delle parole del Vangelo, che abbiamo ora ascoltato:

La sera di quello stesso giorno…
Mentre le porte erano chiuse per timore…
Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”…
Otto giorni dopo … venne Gesù, a porte chiuse…
Si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”….
E i discepoli gioirono a vedere il Signore…

Vorrei consegnarvi alcuni punti da custodire in questo giorno, così particolare per la vita della Chiesa e dell’umanità. Riceviamo il dono del “giorno del Signore”, il giorno del Risorto, in cui Colui che si è addossato le responsabilità di ogni uomo, restando inchiodato ad esse fino a morirne, torna, come luce che attraversa le nostre porte chiuse, ci visita e ci anima col ritorno dell’amore fedele, con i suoi doni. È il dono prezioso della domenica, l’Eucaristia.

Il Risorto ci libera dalla paura: “Non temete”.
La paura ci assale dall’esterno, ci obbliga a nascondere i soldi, a moltiplicare i chiavistelli. La paura nasce dalla coscienza dolorosa degli errori compiuti, che ci rendono ricattabili dalle preoccupazioni e dalle ansie. La paura nasce dal timore dell’opinione degli altri, che rende muta l’esigenza di verità e paralizza la sete dell’amore. Quando il Risorto appare nella sua realtà di amore inchiodato, non come favola ideologica, non come moltitudine di parole, ma come evidenza di cicatrici mostrate, allora facciamo esperienza di veder vinta anche la più drammatica delle paure, quella della morte. Allora scopriamo che non c’è più bisogno di sbarre alle porte, con l’accanimento che si illude di esorcizzare la paura. La morte dei santi è una morte senza paura. La morte di Giovanni Paolo II ci dice la possibilità reale di morire oggi senza paura.

Il Risorto ci dona la pace: “Ricevete lo Spirito”.
Non la pace degli accordi diplomatici, ma una pace che abita alle radici dell’essere, là dove il bene che tanto desideriamo è in continuo conflitto con il male che ci affascina. Là, nelle nostre ambiguità, il Risorto ci raggiunge, con il suo amore che paga di persona, e ricompone la giustizia con la misericordia, permettendoci di ricominciare a vivere al di là di qualsiasi fallimento, di qualsiasi rovina. Nessun uomo può considerarsi definitivamente perduto. La pace che viene da lui propone la croce come chiave per lo spazio grande aperto a tante possibilità, nel vivere personale, in tutta la convivenza umana. C’è speranza per chi ha sbagliato, per chi si sente frantumato, a pezzi. C’è speranza per la famiglia, per la città … anche se le pistole sembrano non voler mai tacere, perché Dio è l’amore fedele che ci visita.

Il Risorto suscita la gioia: “Gioirono nel vedere il Signore”.
Il Risorto ci dona la possibilità di passare dalla paura alla gioia, la stessa gioia del Signore. Non vi sono due gioie diverse, una per Dio, una per l’uomo. Ma una gioia unica, che ha le sue radici nell’amore del Padre, che resta sulla soglia della casa ed attende i figli, da qualunque parte vengano,, con un desiderio di amore sulle labbra: “Entra nella gioia del tuo Signore!” (Mt.25)

“Sono lieto, siatelo anche voi”, pare che abbia scritto il Papa su un biglietto. Il 2 giugno del 1963 ero presente anche io in piazza s. Pietro, con tanti giovani, durante l’agonia di Papa Giovanni XXIII. Egli aveva pronunciato le stesse parole, non con un biglietto, ma recitando il Salmo 122: “Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. Questa gioia non sta nell’assenza della croce, ma nel sapere che Cristo è risorto, il Crocefisso è risorto e il Risorto è con noi. La morte non è. L’amore è.

Così, tenuti fuori dal ricatto della paura e della sofferenza, ci viene donata la possibilità della libertà interiore, la possibilità di andare per il mondo e di disobbedire alla mondanità, percorrendo i sentieri semplici della fraternità, nella pace e nella gioia, per il bene di tutti, senza confondere il presente con l’eternità.

domenica 30 marzo 2008

Il vangelo di questa domenica ci dona l’esperienza che i primi discepoli hanno avuto della presenza del Signore Risorto.

Essi sono raccontati e mostrati chiusi in casa “per timore”, dopo il messaggio di Maria di Magdala. La parola “discepoli”, senza indicazione di nome porta a pensare ai seguaci di Gesù in quanto tali, a tutti: ci raggiunge personalmente, ci conforta ricordando che la proclamazione della resurrezione non elimina il dubbio della fede e il timore dell’incomprensione, lo stesso che Gesù aveva provato durante il suo cammino sulle strade della Palestina. Sarà il vivere “insieme” che donerà la certezza del Risorto presente e capace di superare la debolezza che rimane in ogni cammino di fede. Una presenza fisica, da un lato non condizionata dal limite materiale delle “porte chiuse”, dall’altro libera di farsi riconoscere dalla voce e proporsi alla verifica di lasciarsi toccare sulle mani e sul fianco. Non c’è discontinuità tra il maestro amato e colui che appare, tra il crocefisso e il risorto, tra il Cristo storico e il Cristo della fede. Il suo saluto porta perciò la pace dopo tanta agitazione e genera la gioia dopo la confusione e la sofferenza per quanto era accaduto. Ora il messaggio di Maria è confermato dall’esperienza.

Maria e il discepolo amato dovettero compiere un viaggio dal dubbio alla certezza. Il gruppo fa l’esperienza del Signore in un modo che si direbbe “collettivo”, comunitario: è importante sottolinearlo oggi, in un tempo in cui siamo tutti un po’ ammalati di individualismo. Il Risorto è presente “tra” di loro “in mezzo” a loro, in modo talmente evidente che il loro viaggio sarà dal cenacolo verso il mondo per testimoniarlo, con la certezza nel cuore. Il loro “noi” che vede e riconosce fonda la certezza dell’ “io” che riconosce il “mio Signore e mio Dio”. Perciò tutti hanno gioia e pace.

Questa esperienza è come un rinnovarsi della creazione. Il Risorto “soffia” sui discepoli: è una parola che ricorda il momento in cui Dio “soffiò” nelle narici dell’uomo “un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen.2,7). È l’avveramento della promessa fatta agli apostoli dopo l’Ultima Cena: l’invio dello Spirito che rimarrà nella comunità perché possa andare oltre i propri confini e i limiti dei propri singoli membri per continuare la missione di Gesù a favore dell’umanità intera (Gv.14,15-16).

Il dono è contemporaneamente un incarico: d’ora in poi i discepoli sapranno che la difficoltà di credere e di annunciare, che può dipendere dai limiti personali e dai condizionamenti sociali e culturali, non priva l’umanità dell’amore fedele di Dio, che la vicenda di Gesù ha manifestato fino alla preghiera dell’ultima sera, quando Egli ha domandato al Padre non di toglierli dal mondo, ma di custodirli dal maligno (Gv.17,15). La presenza del Risorto che dona lo Spirito è perciò la vita della Chiesa, luce sul suo cammino.

I discepoli, nonostante i loro limiti, potranno essere nel mondo costruttori e portatori della pace, nel suo significato più intimo di pace nei cuori. Potranno portare il perdono di Dio, indicare, isolare, vincere il male, per tutte le generazioni di credenti che verranno, far sperimentare la presenza di Gesù nel tempo della sua assenza nella comunità radunata nel suo nome.

“Otto giorni dopo”, Tommaso, unico ad essere nominato, era ancora nel buio dell’incredulità. Il Risorto è di nuovo tra loro, rinnova la presenza, facendo del suo giorno il giorno “uno” di ogni tempo vissuto nella fede di lui. Ha un amore particolarissimo per il più debole, acconsente ad appagare il suo desiderio di certezza fisica. E, tuttavia, lo invita ad andare oltre una fede condizionata dalla sensibilità, lo conduce alla più alta definizione di Cristo nel quarto vangelo: “Mio Signore e mio Dio”. Così è vero per il discepolo, e per noi, quello che Gesù aveva detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola”(Gv.10,30). È l’approdo alla fede matura, che condurrà Tommaso ad annunciare il vangelo fino all’India!

Nella beatitudine di quelli che hanno creduto nel Risorto senza averlo visto, riappare la figura del discepolo amato, chiamato a tornare a casa senza aver visto il Signore, per maturare la propria fede nella faticosa vita ordinaria.

Maria ha voluto abbracciare il Risorto, Tommaso ha voluto toccare le piaghe e Gesù li ha compresi nel loro desiderio di presenza fisica. Tuttavia la fede di quelli che credono senza aver visto, che hanno creduto pur “in assenza di Gesù” è pari a quella del più grande tra i primi discepoli

L’assenza di Gesù caratterizza la vita della Chiesa del tempo dei primi testimoni oculari. Eppure lo Spirito può riempire della sua presenza viva il tempo dell’assenza, come mostra la prima lettura. È l’essere uniti nel nome di Gesù, la fedeltà all’amore reciproco, che provoca il dono della presenza, come un ambiente in cui Lui può vivere, sentirsi a casa propria.

Oggi tanti cristiani non hanno il dono dell’Eucarestia per la mancanza di sacerdoti, moltissimi hanno desiderio di Gesù e difficoltà con la Chiesa ed avvertono il senso doloroso dell’assenza del Signore. Tanti si sentono lontani e privi di Lui perché legati in buona coscienza da situazioni affettive oggettivamente non compatibili con il suo insegnamento. La chiave per vivere il dolore dell’assenza sta nell’ascoltare lo Spirito, che spinge a privilegiare i rapporti reciproci tra credenti, in qualsiasi luogo e situazione vivano, perché il Risorto possa realizzare la sua promessa: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt.18, 20). Non si tratta di santi, ma di tutti noi, uomini peccatori, che cerchiamo di accogliere il dono della presenza del Signore, e la responsabilità di mantenerla viva, nella famiglia, nel lavoro, nella politica…

È una grandissima gioia e il grande impegno di ciascuno di noi con il Risorto. Come è stato scritto: “Se siamo uniti, Gesù è tra noi. E questo vale, vale più di ogni tesoro che può possedere il nostro cuore”.

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