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II DOMENICA DOPO NATALE – Anno C
(Sir 24,1-4.12-16; Sal. 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18)

domenica 3 gennaio 2010

“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo”
Il Natale ci dona la rivelazione piena del Nuovo Testamento: Dio è il Padre di Gesù. E, dal momento che Gesù è “nostro” perché si è consegnato all’umanità e quindi ci appartiene come fratello, in Gesù ormai “nostro” riconosciamo che Dio ci è Padre, “ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale”. La benedizione è propria dello Spirito Santo – il legame che unisce Padre e Figlio nelle Trinità -, Spirito di amore, Spirito che benedice  e permette di intuire che l’amore è l’anima della relazione trinitaria, che Gesù è nostro fratello e Dio ci è Padre, che noi siamo come “avvolti” dall’agire “familiare” della Trinità; un avvolgimento che ha come scopo il vivere “nei cieli”, espressione che non significa fuga dal mondo o misticismo astratto, ma chiamata a vivere, già dal presente, nella e della stessa realtà della Trinità. Nella Liturgia delle Ore abbiamo letto un passo di Agostino in cui egli scrive che al primo posto c’è il comandamento dell’amore per Dio, ma che dal punto di vista concreto, per essere inseriti pienamente nella corrente di amore che ci avvolge, bisogna iniziare con l’amare il prossimo: “Aiuta, dunque, il prossimo con il quale cammini, per poter giungere a Colui con il quale desideri rimanere” (Trattato su Gv.17,9).
Generalmente ci pensiamo nati nell’amore dei nostri genitori: è la realtà della nostra esperienza nel tempo. Ma quello che Paolo annuncia si riferisce a un “prima” che i nostri genitori si conoscessero, si volessero bene, e prima che il mondo fosse. La Scrittura dice “in principio”, quando il tempo non c’è, ma solo il mistero profondo di Dio con il suo pensiero eterno, il Verbo. Siamo destinatari dell’amore di Dio da sempre, come figli pensati nell’amore insieme al Figlio eterno. Perciò s. Paolo dice che abbiamo lo stesso destino di santità e immacolatezza. È una parola da comprendere bene, da meditare. S. Paolo invita all’appartenenza senza riserve, ad una vita in cui non c’è un io che si mette di fronte a un tu come una diversità, ma un io che si riconosce tale solo se corrisponde a quel tu. È una riflessione non innanzitutto di ordine morale, che punti a comportamenti perfetti: non si tratta di arrampicarsi sugli specchi del perfezionismo, con il sogno disumano di liberarsi da ogni debolezza. La vita interiore del cristiano sta nell’accogliere con sincerità il dono di Dio Padre, lasciarsi abitare da Lui. Questo permette alla creatura – dice s. Paolo – di essere “a lode dello splendore della sua gloria”. Noi non possiamo accrescere la gloria di Dio, che gli appartiene come sua vita da sempre e per sempre, ma possiamo manifestarla all’esterno, come i colori dell’arcobaleno che, fondendosi, dicono lo splendore della luce. Possiamo, per esempio, contribuire ad interpretare la creazione secondo il pensiero del Signore, o impegnandoci attivamente perché possa essere meglio custodita e goduta. Lo Spirito che ci viene donato nell’Eucarestia ci rende certi, si direbbe “esperti”. che ognuno di noi è come un “tempio” nel quale Dio Trinità è sempre al lavoro per portare avanti, per aiutare l’umanità a diventare “a lode dello splendore” di Lui.
Paolo ne trae la conseguenza di pregare per i credenti perché abbiano “lo spirito di sapienza”. Vuole che la gratitudine non resti nascosta nel cuore, ma si esprima attraverso le relazioni rinnovate nella fede. Prega “il Dio del Signore nostro Gesù”; non dice “il Padre”, ma “il Dio di Gesù”, per incoraggiare i cristiani, di cui conosce le difficoltà nel cammino di fede, sia a livello personale che comunitario. Per un momento distingue il Gesù nella sua divinità dal Gesù nella sua umanità. Perché sentiamo questo Gesù veramente “nostro”, anche nel rapporto con il Padre, ce lo mostra come un modello nel cercarlo, ascoltarlo, crederlo, pregarlo. E dice che l’oggetto della sua preghiera è lo spirito di sapienza. La sapienza è il sapere che serve per la vita, che porta il pensiero di Dio, la sua Parola potente, nell’esistenza concreta. Gli scritti del Nuovo Testamento diranno che le parole di Dio sono parole di vita, hanno il potere di ordinare e redimere tutte le cose, ricomporre i rapporti, rifare la pace, manifestare la giustizia.
Non c’è possibilità di avere la sapienza solo guardando al senso intellettuale delle parole, cosa che è tipica della nostra mentalità occidentale. Nel linguaggio della Scrittura non è così. La sapienza è vivere le cose che si sono conosciute, convivere con esse in comunione di vita, concretamente. Se perdoni sai che cosa è la sapienza del perdonare. Se ami il fratello gratuitamente, sai che cosa è la Trinità in se stessa. Non se lo pensi soltanto. Sapienza è quindi lasciarsi guidare nel cuore dalla voce dello Spirito Santo. S. Paolo parla di una grazia di illuminazione: “Illumini gli occhi dei vostri cuori”, Poiché nell’ambiente semitico il cuore è la sede di tutte le facoltà maggiori: pensare, sentire, volere, perfino il fare sono facoltà indivisibili dagli occhi del cuore. E noi lo sappiamo quando comprendiamo che una conoscenza veramente profonda, completa, deve passare dal cuore. Se non passa dal cuore, non si “conosce”.
Maria, che il vangelo di Luca mostra impegnata a “custodire nel cuore”, è madre della Sapienza. Può essere un frutto bello del Natale avere un rapporto stretto con lei, per imparare ad accogliere il dono della Sapienza.

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