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XII DOMENICA T.O. – Anno B
(Gb 38,1.8-11; Sal.106; 2Cor 5,14-176; Mc 4,35-41)

domenica 25 giugno 2006

Siamo di nuovo nel tempo liturgico detto “Ordinario”, perché non segnato da celebrazioni “forti”, come l’Avvento, la Quaresima, la Pasqua. La straordinarietà celebrata nella liturgia va ora riconosciuta nell’ordinarietà del quotidiano.

In questo tempo continuiamo la lettura del Vangelo di Marco: facciamo attenzione a scoprire la profondità del messaggio nella concisione delle sue espressioni, brevi, ma dense di significato.

Il giorno che volge al termine, “verso sera”, è quello della grande predicazione sul lago, cui è dedicato tutto il capitolo 4. C’era una folla così grande che Gesù volle salire sulla barca per parlare meno pressato e più visibile. La barca è quella su cui aveva predicato la Parola, l’amore del Padre, la fraternità tra gli uomini. L’ordine di salpare era venuto da Lui direttamente. L’esperienza umana universale è carica di prove di carattere economico, fisico, di relazione: questa, però si direbbe una prova particolare, interna alla comunità dei credenti.

Marco sembra indicarlo contrapponendo la sera al giorno, il buio che fa paura alla luce che dà coraggio, e sottolineando, con stranezza apparente, che tutto il racconto riguarda la barca su cui è Gesù con i suoi, e non parlando più delle altre barche. Il racconto è sulla prova che irrompe sulla vita di fede dei credenti: perciò ci riguarda.

La tempesta arriva improvvisamente. I dettagli sono descritti con realismo: il vento impetuoso, le onde incessanti, l’acqua che sale… Il Signore è sulla barca, certamente stanco, appare assente nel sonno, incurante dei suoi, al punto di indurre i discepoli – che hanno lasciato tutto per seguirlo – alla contestazione. E questa è la prova, il culmine del dramma.

Marco racconta l’intervento di Gesù, che precede l’ammonimento: “sgridò il vento e disse al mare: ‘Taci, calmati!’ ”: parlando come ad esseri viventi, ordina di tacere e di ammutolire. È la realizzazione di quanto ci ha detto il Salmo:
“nell’ angoscia gridarono al Signore
ed egli li liberò dalle loro angustie.
Ridusse la tempesta alla calma,
tacquero i flutti del mare.”

(Sal.107,28-29)

Gesù non opera il prodigio per mezzo di una preghiera, ma per la pienezza del potere che è in Lui: perciò il suo sonno non è segno di impotenza, ma di sovranità.

Solo dopo aver operato, il Signore si rivolge al gruppo con un rimprovero severo. Si lamenta per l’incredulità, ancora presente dopo un periodo già lungo di convivenza con Lui:
“non avete ancora fede” o “perché non avete fede?”

Forse avevano drammatizzato troppo il pericolo, non pensando alla sua presenza. Forse erano invasi dal pensiero della salvezza personale, come avverrà al momento della passione, cosa che Marco, mentre scriveva, avrà ricordato. Egli vuole insegnare che seguire il Signore comporta il rischio delle notti e della solitudine. Come aveva insegnato con le parabole nello stesso capitolo 4, è la stessa via di Gesù ad esigere il tunnel dell’oscurità e la fatica del cammino. In questo senso è importante comprendere che l’ordine della traversata viene dal Signore: è Lui che sottopone i discepoli alla prova e i lettori devono saperlo ed essere preparati. In questi giorni un mio amico, consacrato e professore di teologia, è stato male per strada; raccolto e portato in Ospedale, non è stato subito riconosciuto ed è morto nell’angoscia della solitudine. Perché non aveva nessuno accanto e anche il Signore sembrava lontano? Il Signore domanda la prova nei modi più imprevedibili.

C’è un rapporto intenzionale nella Liturgia tra la contestazione dei discepoli a Gesù e la pagina di Giobbe che contesta Dio per le vicende personali e per la situazione drammatica della creazione. La Scrittura dice che Dio ama l’uomo vivente e che la creazione è bellezza nell’armonia e bontà nell’unità, ma appare poi mille volte smentita dalla sofferenza individuale e dagli sconvolgimenti della natura. E l’uomo, in particolare l’uomo credente, in ogni tempo, è spinto alla contestazione, allo scetticismo. Giovanni Paolo II, parlando alla Comunità Economica Europea, così diceva:

“Diverse correnti di pensiero, filosofiche o ideologiche, screditano l’adesione ad una fede e conducono ad un sospetto su Dio che rimbalza sull’uomo stesso, privandolo di una piena coscienza delle ragioni del vivere” (Giovanni Paolo II alla C.E.E.20-05-1985).

Questo sospetto assale il credente: Giobbe, i primi discepoli, ciascuno di noi … L’uomo, a tentoni, nell’oscurità, continua a interrogarsi su Dio. A volte rifiuta, anche pregiudizialmente, la sua stessa esistenza, però, mentre nega e dubita, domanda certezze; mentre è scosso come prigioniero del frammento desidera unità e comunione nella pace.

Marco ci viene incontro parlandoci di Gesù, come di un Dio così capace di condivisione da apparire un Dio che interroga se stesso nel grido dell’abbandono sulla croce (Mc.15,34), e si risolve nella fiducia dell’amore. Egli sa che Gesù è tornato dalla morte e perciò in questo episodio, passa dalla domanda dei discepoli a quella del Signore e gli fa dire:

“Ancora non credete?”

Una fede che confonde il silenzio di Dio con la sua assenza-inesistenza, la difficoltà che permane con la sconfitta-impossibilità del Regno, non è matura.

Il suo messaggio apre uno spiraglio di luce nel buio della prova che attraversiamo, del tempo che sembra avere l’aspetto di una “notte oscura collettiva” – come ha detto dell’Europa Giovanni Paolo II – con l’impegno a passare all’altra riva, e con il Signore che sembra dormire.

Chiediamogli di essere certi della sua veglia, a poppa della barca.

domenica 9 gennaio 2006

domenica 21 giugno 2009

Marco riferisce di tre attraversamenti del lago:

  • 4,25-41: la tempesta, con Gesù che dorme sulla barca;
  • 6,45-52: il vento contrario, con Gesù assente, che viene sulle acque;
  • 8,13-21: preoccupati, perché avevano dimenticato, “avevano un solo pane”.

In tutti i tre casi Gesù interviene, portando soluzione e fine della paura.

Marco tuttavia rimarca che i discepoli rimangono increduli.

E la sua presentazione di Gesù è sulla linea del “tutt’altro”, infinitamente vicino e infinitamente distante, mistero di presenza-assenza, di timore e di attrazione, di tenerezza che avvolge e di paura che allontana.

Vuol dire che seguire il Signore nella fede significa accogliere questa avventura rischiosa dei conti che non tornano.

Dai primi secoli i Padri avevano interpretato la barca come la Chiesa che cammina dietro al Signore che la guida verso “l’altra riva”, come con tono autorevole invita a fare.

Una prima lettura, prevalentemente spirituale, può individuare l’invito nel ministero del Signore che accompagna la vita dei credenti, fragile e in pericolo negli avvenimenti della storia, fino alla riva dell’eternità di Dio. Quasi come “traghettatore”. Invito a fidarsi di Lui, che dorme senza essere toccato dalla tempesta, perché riposa in Dio. È un’immagine bella di come possiamo “riposare in Dio” nell’interiorità, anche mentre le tempeste ci scuotono, e fare l’esperienza di non essere sopraffatti,

Ma il sonno di Gesù lascia i discepoli soli con se stessi.

È come un’assenza, che sperimentiamo quando non capiamo più nulla di quanto ci accade, per il rumore drammatico delle situazioni senza via di uscita, e la relazione con Lui sprofonda nel silenzio. Conosciamo le sue parole, ma non ci dicono più niente. Lo riceviamo nella comunione, ma non lo sentiamo, non ci commuoviamo. Il Signore da l’impressione di non importarsi di noi. E noi non siamo capaci di vedere il suo invito a riposare in Dio, ma solo il suo sottrarsi a noi.

Gesù interviene nel buio della notte, quasi che Marco voglia dire che la sua vittoria sul male è nel buio della passione, quando il demonio è messo a tacere come le onde e il vento (Mc.1,25). È lì che, come dice il testo greco, nasce la “grande pace”. E dice che la paura nasce dalla mancanza di fede.

Credere è contare su Dio e sulla potenza del suo amore, perciò è libertà dalla paura che si alimenta di dubbi.

“Non ti importa?”

Mistero dell’indifferenza di Dio?

Il Signore può e non sempre lo fa.

La fede sa, al di là delle nostre proposte di soluzione, che l’uomo è amato, perciò mai “perduto”.

Gesù nell’abbandono è la chiave per “sapere” in maniera ferma e “in pace”.

Imparare ad affinare la sensibilità per accorgersi delle “altre” espressioni della presenza del Signore che non è “fantasma”.

Ma c’è un altro piano che riguarda il cammino della Chiesa nel presente. Il racconto di Marco conclude il capitolo 4; con l’approdo inizia il capitolo 5, che racconta l’incontro con un uomo posseduto dal demonio e temuto da tutti, poi con la donna afflitta da un’emorragia inguaribile, poi con lo strazio di Giairo per la morte della figlia dodicenne.

Dunque l’altra “riva” è la sofferenza umana.

Impariamo il valore positivo della prova e della conflittualità.

È la nostra fede bambina, immatura, che vorrebbe non sorgessero mai tempeste. Vorremmo che dicesse subito al vento “taci” e a noi “è finito”.

E invece Dio sta nell’occhio nascosto della tempesta, nel suo cuore buio, come un seme interrato. Perché gli importa di farci crescere in modo adeguato in quel “come”.

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