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Parrocchia S.Maria di Piedigrotta – Napoli

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XXIII DOMENICA T.O.- Anno C
(Sap 9,13-18; Sal. 89; Fm 1,9-10.12-17; Lc 14,25-33)

domenica 5 settembre 2004

Oggi ascoltiamo le parole forti che, nel cap.14 del Vangelo di Luca, Gesù dice ai molti che camminano dietro di lui, mentre va verso Gerusalemme: “Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. La strada che Gesù percorre va verso la passione, verso la croce. Luca lo ripete più volte. Chi segue il Signore sa di dover incontrare, di dover guardare la croce, che è cosa propria del discepolo, perché appartiene alla via del Maestro. “Se uno viene a me e non odia – non ama meno – suo padre, sua madre, la moglie… non può essere mio discepolo”. Il verbo è al presente e indica così che l’appartenenza a Gesù deve essere radicale, deve essere assenso responsabile alle esigenze della sequela anche sul piano delle relazioni affettive, dei beni. Niente può essere anteposto alla sua via. Gesù sembra avere diffidenza per le risposte velleitarie e puramente emotive. Il suo è un invito ad andare in profondità. La croce non può essere vissuta come fatto scontato, da vivere in maniera superficiale. Non può essere portata sulle scollatura, ma va radicata nel profondo del proprio cuore. Va presa ogni giorno – aveva detto Luca al capitolo 9 – perché va riproposta ogni giorno. Il cammino della sequela deve essere rinnovato ogni giorno, non solo col sentimento o con le devozioni, ma cercandone le motivazioni, vivendo concretamente, giorno dopo giorno, in maniera operativa, le esigenze del Vangelo.

C’è, nelle parole di Luca, un invito forte e ripensare la propria fede. Perciò egli inserisce nel brano due parabole. È necessario riflettere per comprendere che cosa comporta una vita vissuta secondo il Vangelo, che è il modo nuovo, annunciato dalle Beatitudini, è impegno motivato, è qualità nuova di vita, è tensione verso il traguardo. Le due parabole ripetono il verbo “sedere”. Il re e il costruttore si siedono, prima di intraprendere la propria impresa. Non si tratta di ricerca di perfezionismo nel proprio comportamento e neanche di pensare che la vita per il Vangelo debba essere riduttiva, spenta. L’uomo che segue la croce non è smorzato, dimezzato, ma, al contrario, è l’uomo che ha passione per la vita negli affetti, nelle amicizie. Gesù ha sperimentato con gusto questi sentimenti. Egli ci chiede di non essere legati alle situazioni individuali di vita, al variare delle circostanze, all’opinione corrente. Gesù propone una vita pensata come dono di amore. Questa è la novità del Vangelo e Gesù aspetta dai suoi una risposta.

Nella gravità di questo momento della nostra storia è indispensabile pensare meglio al Vangelo. Solo così potremo cercare di appianare i conflitti sempre più atroci. Gesù non vuole che ci aggrappiamo ai miti, oggi come nei tempi passati. Non vuole, cioè, un’adesione fatalistica, mortificante. Ma non vuole neanche che l’uomo, con la sua sola ragione, cerchi di raggiungere la luce. Il cammino individualistico della cultura del secolo scorso si è concluso con lo smarrimento, con l’angoscia, con il solipsismo della coscienza del singolo, isolato nella sua ricerca. Gesù che va verso Gerusalemme si propone come via e ci dice: “Venite dietro di me e divenite amore”. Gesù è il Verbo di Dio e Dio è Amore. In Gesù la durezza dei concetti diventa relazione nell’amore. Per lui conta il bicchiere d’acqua donato al fratello, la mano tesa verso il nemico. Dice Bonaventura, spiegando la vita i Francesco, che il suo non era un pensare discorsivo, ma la familiarità intima con l’amore di Dio. Pensare nell’amore libera da ogni ripiegamento narcisistico sul proprio io. Libera dall’angoscia, libera dalle problematiche interne ai rapporti umani. Perché l’amore sempre più grande permette una vita sempre più piena. Ce lo fa capire bene Paolo, nella seconda lettura. Pur amandolo moltissimo, egli rimanda dal proprio padrone Onesimo, lo schiavo che era fuggito. Non impone leggi, non teorizza sulla schiavitù, allora radicata nel costume. Chiede all’amico Filemone di vivere il suo rapporto con lo schiavo nell’amore reciproco, che vince ogni disuguaglianza, ogni situazione negativa. La via per orientarci nelle problematiche dell’esistenza concreta non ci è data dall’evidenza razionale, ma dall’impegno a seguire Gesù. Dopo l’epoca dei miti, dopo quella del pensiero individualistico, forse nasce oggi quella del pensare con amore. Qui è la sapienza del cuore, che abbiamo chiesto con il Salmo, che, ci ha detto la prima lettura, ci rivela il pensiero, la volontà di Dio.

In questi giorni, meditando sulla figura di Maria, cerchiamo di scoprirlo!

domenica 5 settembre 2010

“A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato quelle del cielo? Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”

Ancora una volta la pagina liturgica della Sapienza invita all’umiltà della mente e alla preghiera del cuore per accogliere il vangelo, con semplicità e fiducia, sapendo che quanto ci appare arduo può diventare possibile per il dono della Sapienza.

Gesù parla ad una “folla numerosa”; il segno della folla che segue il Signore richiama l’esperienza della prima comunità a Gerusalemme e dice il fascino di Lui sull’umanità di ogni tempo e luogo. Le parole sono certamente di Gesù, dicono la sua radicalità, sono riportate anche da Matteo (Mt.10,37), che però preferisce attenuare la durezza del verbo “odiare” con “amare di più”, come si esprime il testo liturgico. Luca vuol dire “posporre decisamente”. Non si tratta di un sentimento, tanto meno di contraddire il quarto comandamento, il verbo non nega i rapporti umani ma li relativizza nella coscienza di chi segue Gesù, in cui il primo posto è di Dio. Al discepolo viene domandato di “posporre”, quando è necessario, anche coloro che Dio stesso vuole che siano amati. Fino alla “propria vita”. Il vocabolario fa pensare al rapporto maestro-discepolo non come un’iniziativa del discepolo che è tale perché risponde ad una chiamata interiore che lo lega al Signore non solo in senso di pensiero, ma alla sua persona e al suo destino. Chi segue non diventerà mai “maestro”, resterà sempre “seguace”, per cui il ”posporre” resterà impegno di tutta la vita. Alla scuola del radicalismo di Gesù, il discepolo corrisponderà con la radicalità dell’obbedienza, dell’appartenenza e dell’amore personale. Così amore del Padre nel Figlio donato e amore del discepolo si sposano nella reciprocità. È l’alleanza nuova! L’esigenza concreta di lasciare per seguire appare evidente nella vicenda dei dodici. Bisogna limitarsi a loro e a qualche altro privilegiato come Benedetto da Norcia, Francesco di Assisi e Teresa di Calcutta?

Il fatto che Luca riferisca esigenza del Signore e disponibilità dei discepoli rivela che nella Chiesa dei primi tempi esse erano presenti ed attuali, perciò realtà che riguarda la “folla numerosa”.

I dodici sono visti come esempio, rappresentanti del discepolato.

Ogni cristiano – dice Luca – se vuole essere realmente seguace di Gesù, deve essere pronto a posporre qualsiasi realtà gli appartenga al primato di Lui, della vocazione cristiana.

Per questo Luca parla apertamente della croce, non come ineluttabilità a cui rassegnarsi, ma come una definizione del seguace di Gesù, colui che ha aperto in prima persona il posporre la propria stessa vita.

Questa, dunque, la scuola di Gesù Maestro, e Luca la propone alla libertà del lettore con le due parabolette, raccontate per dire la serietà della scelta di fede cristiana. Lo fa non per scoraggiare dal cammino di sequela, ma per dire che seguire Gesù è il fatto serio della vita di fede da portare a termine con l’impegno di tutto se stessi. Scuola di educazione alla libertà, che non può essere pensata come qualcosa di neutro, ma come liberazione dai condizionamenti che impediscono la dedizione piena a Dio. Libertà di associarsi alla strada e allo stile del Signore, senza ondeggiamenti, senza fermarsi alla sola adesione esteriore o solo dottrinale, ma agganciata alla vita “propria”. È Gesù stesso che parla della croce come della “propria croce”, come qualcosa che è “propria” nel segreto della coscienza e del rapporto con Dio solo, qualcosa che esige il tagliare e contemporaneamente aggiunge la vita stessa di Dio nella nostra piccola vita. Qualcosa di talmente intimo e personale a ciascuno, da richiedere di avere rispetto e discrezione per l’amare e il soffrire di ciascuno, di non invadere o intralciare l’opera di Dio nei cuori, quel Dio Spirito che conduce l’uomo all’intimità con Sé facendogli percorrere la via di Gesù. Il luogo e il momento per restare fedeli a questo cammino è la celebrazione dell’Eucarestia. Quando, al culmine di essa, partecipiamo alla comunione, sperimentiamo che seguire il Signore non è un fatto esteriore e rituale, ma una partecipazione attiva, una solidarietà, una circolazione di sentimenti. L’Eucarestia è il Sacramento del discepolato, inteso come unità di vita e di sorte con Gesù.

Scegliere per sé una vita che assomigli a quella del Signore, pensare i suoi pensieri, preferire quello che il Signore preferisce, imitare il suo amore. Questa è la scelta attiva della “scienza della croce” (Edith Stein)

Nella certezza che prendere la propria parte di amore significa vivere e la propria parte di dolore significa amare.

Portare la propria croce, allora, vuol dire spendere la vita per togliere la croce dalle spalle dei fratelli. Con la potenza del Signore crocefisso e risorto.

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