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Esaltazione della Croce – Anno A
(Nm 21,4-9; Sal.77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17)

domenica 14 settembre 2008

Nel vangelo di Giovanni il colloquio con Nicodemo ha un’importanza particolare perché Nicodemo è una persona che esprime bene il cammino che deve compiere per accogliere la via di Gesù chi proviene da una visione trionfalistica della fede, legata ad avvenimenti sensazionali. Egli è persona colta, fa parte del Sinedrio, il consesso di 70 anziani che in Israele avevano il compito di custodire la tradizione. Per descrivere quest’incontro l’autore del quarto vangelo ricorre all’immagine della “notte”: non è tanto l’indicazione del tempo astronomico, né di quello in cui un colloquio si può vivere senza fretta, né dice l’esigenza di riservatezza, ma, nel simbolismo che l’evangelista ama, indica la condizione di oscurità, di incompleta concezione di Dio, in cui Nicodemo si trova rispetto alla rivelazione della novità del vangelo.
È una persona aperta a Gesù e Giovanni lo guarda con simpatia, proponendolo come persona che giungerà alla chiarezza, fino a difendere Gesù davanti all’ostilità del Sinedrio (Gv.7,50-52), e fino alla compromissione piena nel momento dell’essere protagonista della sepoltura, con la tenera premura, tipica di chi ama. Insieme a Giuseppe di Arimatea riveste e profuma il corpo di Gesù: lo ama con tutto il cuore e non si preoccupa di esporsi ad un rischio. (Gv.19,39-42).
La sua fede appare ancora incompleta in questo colloquio, ma Giovanni sembra indicarla come strada da percorrere per i cristiani che non vengono da una fede alimentata da una storia di trionfi – come quelli descritti dalle meraviglie dell’Esodo – ma dalla fiducia nella persona e nella parola di Gesù.
Nicodemo è espressione del nuovo popolo credente, che pensa la fede e giunge alla gioia dell’incontro, non senza fatica. Il suo nome greco significa “vittoria del popolo”. La sua vittoria intima sta nell’affidarsi a Gesù che gli domanda di credere alle “cose del cielo”, fidandosi del suo essere “disceso dal cielo”. Le “cose terrene” nel colloquio con Gesù sono l’evidenziazione della necessità di rinascere, avvertita sempre più acutamente nel pensiero e nell’esperienza umana. Le “cose del cielo” sono il più che Gesù porta: lui è il “disceso dal cielo” e la sua rivelazione è l’amore di Dio che rinnova l’uomo, lo libera dal male con l’azione dello Spirito. Questa azione risponde all’aspirazione dell’uomo di ogni tempo, la felicità e la libertà.
Gesù, aveva detto Giovanni al capitolo 2, “sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv.2,24). E gli uomini capiscono che la loro vita è senza prospettive, è destinata al non senso, se non si arriva a rendersi conto della necessità di un’elevazione spirituale e di un rinnovamento interiore, che solo Dio può dare. Perciò la necessità dell’ascolto di colui che è “disceso dal cielo” e della contemplazione dell’evento sconcertante della croce, per mezzo della quale “chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.
Il monologo di Gesù conduce fino alla sorgente della rivelazione, là dove è l’amore di Dio che dona il suo Figlio per la libertà dal male e la felicità, che sono l’aspirazione umana. Il suo parlare amichevole ed autorevole a Nicodemo dice che Gesù attende dai discepoli che testimonino con il loro spendersi l’impegno per la liberazione e la pace. Qui è il punto di contatto con il messaggio del capitolo 18 del vangelo di Matteo, che avremmo dovuto leggere oggi, continuando il discorso che abbiamo ascoltato domenica scorsa.
Così come Caterina da Siena al suo tempo – tempo terribile di odi fratricidi – possiamo ora pensare “con intelletto d’amore” al nostro tempo, che ha visto il cadere delle ideologie, ha fatto della secolarizzazione la sua nuova ideologia, relegando la fede nel privato e idealizzando il benessere in una specie di euforia, presto finita, perché la mediocrità culturale e le difficoltà economiche gravano sulle fasce più deboli. Sono stati travolti anche valori prima condivisi e sono andati in crisi anche concetti e motivazioni sociali e politiche, gli stessi propositi di libertà e di democrazia. Tutto sembra appiattito. E tanti sentono che senza verità non c’è costruzione della città dell’uomo. Lo sentono anche nel rifiuto polemico del segno della Croce, a volte ostentato dai cristiani come affermazione di superiorità culturale o garanzia di ordine, in senso di legalità e moralità, a volte banalizzato ad oggetto estetico.
A questa crisi culturale ed esistenziale i discepoli di Gesù sono chiamati a rispondere facendo propria la sua parola a Nicodemo, la parola che invita a guardare la croce, a farne il segreto della vita intima e dell’amore senza trionfalismi.
Nel luglio del 1944, rinchiuso nel carcere di Berlino, Dietrich Bonhoeffer scriveva profeticamente:
Quando si è completamente rinunciato a far qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma la sofferenza di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è la fede, questa è la metanoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani”
(D. Bonhoeffer, Lettere 21-7-1944)

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